Le cicatrici d’oro
è il secondo romanzo di Maria Adele Cipolla che leggo e recensisco.
Non mi ha deluso. Anche se sono una donna, i libri sulle donne o che
hanno di protagonista una donna non mi piacciono affatto, ma ci sono
delle scrittrici come questa donna siciliana (ci sono altre donne che
scrivono e che mi piacciono, non vi arrabbiare con me) che sanno
scrivere in modo semplice, carino, veritiero, che non usano un
linguaggio falso e di commiserazione. Tutte quante le scrittrice che
sono state recensite da me sono donne forti, con carattere, con le
idee chiare su quale è l’atteggiamento corretto di una vera donna.
Le
cicatrici d’oro racconta della Sicilia degli anni sessanta. Un
periodo difficile per tutte le donne di Europa, per quanto ne so io,
giacché la società sta cambiando e le donne vogliono cambiare con
essa. Anzi, vogliono cambiare la società per quanto riguarda il
rapporto con le donne. Sia in Italia che in Spagna le donne dovevano
rimanere a casa oppure, se lavoravano, dovevano farlo con il consenso
del marito. Per nominare una delle cose che non potevano fare
liberamente.
Il
libro di Maria Adele Cipolla è la storia di due donne: Rita, una
donna appartenente a una famiglia benestante cittadina, e Francesca
Viola, una ragazza rapita da otto giovanotti, tra i quali c’era il
suo pretendente. Ossia stiamo a parlare del famoso rapimento
per forzare i parenti delle due famiglie a un matrimonio.
Entrambe
le donne, Rita e Francesca, appartenenti a ceti sociali diversi,
hanno qualcosa in comune: la sottomissione delle donne al marito,
alla legge, ai commenti malintenzionati della società.
Così
le quasi 400 pagine del libro di Maria Adele Cipolla è qualcosa in
più di due storie: è la storia dello sviluppo di tutte le donne del
mondo per trovare il loro spazio, la loro libertà, per rendere
visibili i loro pareri, i loro sentimenti e le loro speranze.
La
lotta di Rita per diventare magistrata ed essere felice va unita alla
lotta di Francesca per non essere data in sposa al suo violentatore,
una legge ingiusta e feroce che non prende in considerazione la parte
più debole, la donna. Ognuna di loro, senza neanche conoscersi,
lotteranno per abolire questa legge e per diventare liberi in un
mondo che ancora non capisce che una donna non appartiene a nessuno,
soltanto a se stessa.
Ma
questo libro non è soltanto un libro di donne, parla anche degli
uomini: di quelli chiusi di menti che usano le donne come se fossero
un fazzoletto di carta (il marito di Rita, Giorgio; il violentatore
di Francesca; il suocero di Rita…) e quelli che, anche se hanno una
mentalità antica per quanto riguarda il ruolo delle donne, cercano
di cambiare, di capire (il padre di Rita, i suoi fratelli, il vecchio
professore di giurisprudenza…) e che, alla fine, riconoscono la
giustizia dell’atteggiamento delle donne nelle loro famiglie.
Non
voglio finire questa recensione senza nominare a un terzo tipo di
donne che soffrivano una violenza fuori del comune: le donne di
servizio. Nella pagina 175 del libro Maria Adele Cipolla scrive:
Il
costume dei tempi era quello di togliere le bambine alle famiglie di
paese che non potevano mantenerle, per poi addestrarle a diventare
donne di servizio. Era ciò che era successo a quella povera bambina
della provincia di Messina, di cui parlavano le cronache, si chiamava
Graziella Parisi ed era stata assunta a undici anni dalla famiglia di
un capostazione di Castel Di Tusa. Nei quattro anni di servizio la
padrona l’aveva trattata a botte e calci, al punto da provocarne
l’agonia, e a quel punto aveva ritardato di ore il suo soccorso
lasciandola morire. Era una violenza fuori dal comune, a cui nessuna
signora del suo ambiente era mai ricorsa, di questo Rita era sicura,
ma era pur vero che, come diceva Crocetta, quelle bambine venivano
consegnate a famiglie che spesso le trattavano come schiave.
Perché
la violenza contro le donne non ha a che vedere con il ceto sociale,
né col vivere in città o in campagna, è una violenza brutale che
nasce della paura e della debolezza di chi la fa.
La
maniera di scrivere di Maria Adele Cipolla, semplice, scorrevole,
chiamando le cose col proprio nome, senza paura di essere malintesa,
mi è piaciuta.
Questo libro si deve leggere non solo per ricordare
il camino che hanno fatto le donne finora per diventare libere e
intraprendenti, anche perché le nuove generazioni capiscano come si
è potuto arrivare a una libertà ottenuta di sacrifici, di sudore,
di lacrime, di incomprensione. Perché non si deve mai tornare
indietro, sempre avanti, come fanno Rita, Francesca, Crocetta e le
otto donne che negli anni sessanta diventarono giudice contro ogni
previsione.
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